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Nel 1854 Antonio Rosmini affronta il tema della libertà d'insegnamento e pone al centro del suo scritto - largamente legato a diatribe interne al Regno di Sardegna e alle sue scelte in materia di diritto ecclesiastico - il tema della libertà. Muovendo da una riflessione generale sulla giustizia e sui diritti naturali, in "Sulla libertà d'insegnamento" Rosmini esamina in che modo l'attività educativa possa essere svolta dalla Chiesa Cattolica, dai dotti, dai padri di famiglia, dai benefattori « che col proprio danaro mantengono le scuole », dai comuni e dalle province, e infine dal governo. Centrata su esigenze primariamente religiose, l'analisi porta l'autore a promuovere un'ampia libertà di scelta e iniziativa, dal momento che « un Governo civile obbligando tutti i maestri ed istitutori a seguire un unico metodo da lui stabilito per ogni ramo d'istruzione, non è solo violatore del natural diritto al libero insegnamento che hanno i dotti, ma di più è nemico del progresso ». La riflessione sul pluralismo educativo conduce Rosmini, ed è comprensibile che sia così, ad esaminare anche il problema delle relazioni tra Stato e Chiesa. Appoggiandosi alle tesi di Alessandro Manzoni, il filosofo roveretano difende le prerogative dell'autorità cattolica, evidenziando però come la libertà di agire e ammaestrare « non è dunque data solamente alla Chiesa, ma è data ai popoli, ed è una conseguenza legittima e necessaria del sistema costituzionale che tutto si fonda sul principio generale delle guarentigie ».