L'invenzione del cinema, perfezionamento della fotografia, ha dato modo agli umani di vedere doppi realistici di corpi in azione, in realtà ombre, fantasmi, spettri, prima muti, poi parlanti, suscitabili a piacere a ogni proiezione, con il solo limite d'essere condannati a ripetere ogni volta gli stessi gesti, a pronunciare le stesse parole. Eppure questo limite non è solo una condanna, non è solo ripetizione, non ricalca necessariamente i sentieri dell'identico.
Il cinema, in certi casi, è in grado di veicolare con le sue immagini qualcosa come una quintessenza, e quelle ombre, quegli spettri, quei doppi, sono in grado di dirci, sul nostro corpo, sul rapporto con il mondo, sui movimenti, sui gesti, sul tempo, sull'identità, sulla memoria, sul mito, qualcosa di rilevante anche sul piano filosofico. È quanto si spera risulti dalla lettura di queste note, avvertendo comunque che esse, nel loro andamento non sistematico, si appoggeranno a oggetti e soggetti filmici in apparenza eterogenei, da Pasolini a Orson Welles, da Rossellini a Bela Tarr, da Raul Ruiz a Bressane, da Tsai Ming Liang a Cronenberg, da Ejzenstejn a Godard, da Dreyer a Scorsese, da Fellini a Gianikian e Ricci Lucchi, da Chantal Akerman a Twin Peaks 3, non senza qualche rapido excursus teatrale, tra Artaud e Carmelo Bene.